I know it's over

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    “And i know it's over - still i cling, i don't know where else i can go, over and over and over”
    Gliel'ho detto. Oh cazzo, gliel'ho detto, alla fine. Non so come sentirmi...come mi sento?
    Mi piego in avanti, mi raccolgo il viso ruvido tra le mani. Mi sento vecchio, a forza di raccontare queste cose.
    « Quanti anni sono passati, Romeo? »
    Sento la voce di Vienna ovattata dalle dita tra le orecchie, tra i capelli.
    « Non...voglio contarli, davvero » biascico. Scuoto la testa così piano che penso, adesso mi si stacca, mi si stacca, cade a terra e non sento più tutte queste cose.
    E' passato così tanto tempo...così tanto.

    Avevo aspettato. Che paura, aspettare. Era un timore viscerale, e da quando Scipio e Andrew se n'erano andati i colori non erano più a loro posto...niente lo era. Esplodevano, e mi ritiravo negli angoli di quella casa come un animale braccato. Era solo una stanza, ma ora sembrava talmente vasta e allo stesso tempo soffocante, da togliermi tutto dalle mani. Non pensavo più, in quei momenti ero un lupo e basta. Pensare era nocivo, era come il sole per Scipio, mi bruciava, mi urticava la pelle. Non ero così coraggioso come lui...non ero così stronzo come lui. Non ero più nulla, a dire la verità. Pure Andrew se n'era andato, e non riuscivo a contare quante cose avessi rotto d'improvviso, perché mi facevano paura. Ero in una bara piena di oggetti rotti, e nessuno veniva a prendermi per tirarmi fuori da lì, cazzo.
    Quello che mi faceva più stare male, era il desiderio viscerale di dimenticare tutto. Non era da me, era come se il mondo si fosse capovolto al contrario e mi facesse desiderare di scordarlo, di tornare al primo giorno, di ferire Scipio e allontanarmi da lui, da Ketchikan, da tutto quello che sarebbe arrivato. La quantità di sensazioni, emozioni, che ho provato in quei momenti mi avrebbe devastato talmente tanto, nel profondo, che non avrei saputo dargli un nome. Ad un certo punto, credo di aver distrutto così tanto quella casa, nei pochi momenti di lucidità, che qualcuno deve avere chiamato quella gente che controlla che tutto sia a posto. Ho sentito le sirene, mi si piantavano nelle orecchie, era giorno e sono scappato.
    Era giorno e sono scappato. Era tutto sbagliato, non si scappava di giorno. Non si scappava di giorno, o qualcuno avrebbe potuto farsi male, avrebbe potuto ferirsi e...
    Non avevo nulla con me. Non so se me ne resi conto, avevo distrutto tutto in ogni caso. Pure il violino, quello lo avrei cercato in là negli anni, ma non ne avrei trovato uno uguale. Che senso ha comprare delle cose che non servono, che non sono come quelle che vorresti davvero? Non hanno vissuto nulla con te, non sanno nulla di te.

    « Questa parte l'ho raccontata malissimo » dico, e mi sfrego le mani sul volto, mi rialzo in piedi e cerco di sorridere, ma mi accorgo che mi fa leggermente male. Non è veramente un male, solo...dev'essere un ricordo.
    « Ha fatto degli enormi passi avanti invece » replica Vienna. Sbuffo e mi rovisto nelle tasche alla ricerca di una gomma da masticare. Macché passi avanti...se ne avessi fatto qualcuno, mica sarei lì a spendere soldi come un cane.
    « Perché dice questo? »
    Oh, merda, non ne trovo neanche una. Tiro fuori un fazzoletto, provo a fare un tiro verso il cestino a lato della scrivania di Vienna. Centro. Lei mi guarda male. Malissimo.
    « Eddai » mi giustifico, poi indico il mio punto: « Ho fatto centro! Easy. Se n'è accorta quante volte i Newyorkesi dicono easy? Con questo accento, poi... »
    « Sì, l'ho notato. Perché pensa che l'abbia raccontata in modo sbagliato? »
    Oh cazzo, non le si può nascondere niente, ma proprio niente. E' un cazzo di segugio...ma ormai ci sono abituato. Anzi, penso che se non ci fosse Vienna la dovrebbero inventare.
    Sospiro. Dove cazzo è quel pacchetto di gomme che mi avevano dato l'altro giorno? Non è possibile, era davvero qui un secondo fà.
    « Non sbagliato » biascico mentre mi ravano le tasche: « Male...non è sbagliata, è detta male. Nel senso, le cose che ho detto sono successe per davvero, ma non è che le abbia vissute in questo modo. Sono state di più »
    « Intense, forse. E' normale, non credo sia possibile descrivere esattamente ogni singolo stato d'animo...e non le chiedo di farlo, non ora. Se vorrà, più avanti. Intende che esiste un solo modo per rivivere il passato correttamente? »
    Mi fermo, alzo la testa, sorrido.
    « Non l'ho ancora capito. Quando ci riesco, glielo faccio sapere »

    Non rubare. Non dire falsa testimonianza. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Ho fatto e pensato tutte quelle cose, ma nessuno mi ha fermato. Dio non l'ha fatto, perché non c'era più. Mi sono rifugiato nei posti più bui, perché la luce a volte mi dava fastidio. Troppi colori, troppi rumori, era tutto troppo grande e non capivo, non capivo, non capivo come la gente potesse camminare in posti del genere da sola senza perdersi. Rubavo, e a volte qualcuno se ne accorgeva. In quei momenti l'aggressività che sentivo era moltiplicata in base a quella degli altri, e finivo per volerli quasi ammazzare, perché smettessero di vomitare così tanto colore. Una volta mi hanno sparato, e mi hanno beccato una gamba di striscio. Il male non lo riuscivo a sentire più...non volevo sentirlo. Era tutto avvolto in una palla di plastica, e io c'ero finito dentro. A quel punto non riuscivo più a chiedermi perché dovessi andare avanti...poi mi dicevo, tanto vale...tanto vale continuare in quel modo, perché avevo ancora fisso in testa la sensazione che un tempo mi aveva fatto rialzare da terra, da come stavo, nudo, in una foresta, senza sapere da dove venissi.
    Desideravo così tanto di poter tornare a toccare quei ricordi da farmi continuamente male senza volerlo. Ero...sbadato.
    Non riuscivo a imparare più, né a ricordare cose nuove. Non riuscivo a parlare con la gente, non riuscivo a tenere a mente quando cazzo arrivava la luna piena, mi sentivo solo confuso, agitato, sempre, costantemente, e poi accadeva, mi trasformavo da un momento all'altro, e io non potevo farci nulla. Non potevo farci proprio un cazzo di nulla. Non c'era più nessuno che mi portasse in un bosco e che mi corresse accanto. Nessuno badava alle mie ossa spaccate, ogni volta, come fosse la prima. Nessuno mi leggeva più nulla, nessuno mi ricordava cosa fosse giusto o sbagliato.
    Ormai era tutto uguale.
    Ormai non avevo solamente paura...tutto ciò che toccavo, e che toccava me stesso, era paura. E la paura, a quel punto, generava solo risentimento. Meglio fuori che dentro, no?
    Camminavo in una città con mille scritte colorate che non sapevo leggere. Non desideravo avere a che fare con nessuno, ed ero circondato da uomini che non sapevano cosa fosse la magia, con la testa dentro a quei cosi, quegli schermi che tenevano in tasca e che avrei voluto provare anche io prima che Scipio e Andrew...

    « Forse...potrei darle una mano su questo punto »
    Cazzo, avrei proprio bisogno di una sigaretta. Qualcosa da masticare, almeno. Com'è possibile che mi scordi sempre quello che mi serve quando mi serve? Pazzesco. Dovrei parlarne con Vienna, forse il mio problema è tutto qui: non ho quello che vorrei nel momento giusto e quando succede mi incazzo. Nah, non incazzare nel senso brutto del termine, non picchio più la gente senza motivo, non sono più...quel tipo.
    Oh davvero, Romeo? Ricordi quando hai dato un pugno a Vienna? L'hai stesa e non sapevi neanche come chiamare aiuto, se coinvolgere qualcuno. Bel cazzo di momento, dovresti farti i complimenti da solo. Non ricordi? Forse non vuoi, non vuoi, ecco il cazzo di problema, tu non vuoi mai...
    « Non si può rivivere il passato correttamente. Anzi, posso assicurarle che il passato non può essere vissuto una seconda volta...ecco perché lo troviamo importante. E' vivo solo nelle nostre memorie, in quello che ricordiamo meglio. Per qualcuno può essere un uomo seduto ad un bar, per qualcun altro il bambino che passava al di fuori in bicicletta » la guardo fare spallucce: « Ognuno ha dei frammenti, chiamiamoli così. Dei microscopici frammenti di ciò che è accaduto nel mondo, e quei frammenti sono importanti, perché li abbiamo vissuti. Non importa come, non importa neanche il motivo, non c'è un giusto o uno sbagliato nei ricordi...c'è solo una parte della sua vita. Per migliorare la nostra esperienza con gli altri, dopo che un fatto è accaduto, possiamo prendere quel ricordo come modello per un avvenire più giusto, migliorare di conseguenza a ciò che è già finito, e non può essere variato »
    Si ferma, mi guarda seriamente.
    « Romeo...posso darti del tu? »
    Annuisco. Mi sento le palpebre stanche.
    « Questo è solo un consiglio, tra me e te. Pensa a come essere migliore adesso, con il passato che ti sei costruito e guadagnato. Non c'è una giustizia da recuperare, solo...agisci per il tuo bene, e per il bene degli altri, adesso, perché quelli di domani siano ricordi meno tristi e pesanti da sopportare di notte, quando sarai solo con i tuoi pensieri »
    Mi passo una mano sotto le narici, piegando gli occhi verso il basso. Sbuffo un sorriso, nel frattempo.
    « Mi hai detto che non credevi in Dio »
    « Difatti »
    « Andrew ti sarebbe piaciuto, comunque »
    Sì. In quei momenti, nel passato, in quel buco stagnante che non posso cambiare, probabilmente Andrew mi avrebbe parlato con la stessa calma, dicendomi più o meno le stesse cose.

    Mi capitò di dormire sulla piazzola di sosta di alcuni autobus. Forse da quel momento iniziai ad avere allucinazioni e pensieri intrusivi. Ero sconvolto dall'intenzione di andare a Ketchikan: Scipio doveva essere lì. Dopo l'ultimo litigio che avevamo avuto, l'indomani non avevo trovato Scipio intento a leggere qualcosa accanto a me. Semplicemente, mi aveva lasciato lì. Lo avevo aspettato per giorni, per mesi, ma avevo solamente finito per essere aggressivo, e litigare con Andrew. Non sapevo davvero come controllare la mia rabbia e agitazione, e alla fine, avevo, avevo...no, no, non voglio dirlo. Fatto sta, che Scipio doveva essere a Ketchikan, e per quanta paura avessi, quel punto di speranza c'era. Esisteva, e mi detestavo per averlo ancora lì, fisso, nel mio petto. Ogni volta che si alzava un po' di più, mi ritrovavo a sospirare e a pensare a quanti di quegli autobus che passavano di lì avrebbero potuto portarmi dov'era Scipio, e insieme trovare Andrew com'era già successo.
    Almeno, volevo sapere perché. Perché era scappato via? Non capivo. Ci eravamo detti di voler essere il nostro mondo, che non ci importava così tanto di cosa sarebbe successo perché cazzo, noi tre andavamo bene per quello che eravamo. Perché se n'erano andati? Ero io, ero io quello che lo faceva, loro mi portavano indietro, invece adesso ero seduto ad una fermata di un autobus che non sapevo da dove venisse e dove andasse, e mi chiedevo, sarebbe successo qualcosa se fossi andato a Ketchikan? Non volevo più pregare nessuno, non volevo più avere a che fare con la magia, ma forse, forse non serviva, forse avrei potuto trovare un altro modo, un modo meno spaventoso, perché prima di tutti noi era stato Andrew a sistemare le cose, poi Scipio, e continuavo a pensare, continuavo a...credere, quasi sfiorare, l'idea che adesso fosse il mio turno.
    Era stata colpa mia? Non sapevo, forse sì, forse non avrei dovuto addormentarmi e stare sveglio, così in quel modo Scipio non se ne sarebbe andato...avrei voluto chiederglielo, lui sapeva sempre tutto...perché continuavo a farmi domande su domande, se non avevo idea di quale fossero le risposte giuste?

    Non so perché lo feci, davvero, Vienna, non ne ho idea. Un giorno decisi di andare a Ketchikan.
    Lasciamelo dire, fu più complicato del previsto: non avevo soldi per un autobus e in più non sapevo dove portassero. Un paio di volte io e Scipio avevamo caricato gente che faceva autostop, o una cosa del genere, così decisi di farlo anche io, e fu strano, perché dovevo avere a che fare con le persone, e fidarmi di loro. Dovevo fidarmi di quello che mi dicevano, di essere trascinato dalle loro macchine che non erano quella di Scipio, e tornare indietro. Lasciare New York, andare indietro.
    Indietro. Andare incontro a tutto quello che io e Scipio avevamo lasciato, a tutto quello che aveva trattenuto Andrew e che poi avevamo cercato di mandare via tutti insieme.
    Con quale coraggio lo stavo facendo? Non volevo ricordare.
    Non ricordai per un bel po'. Mi raggomitolavo in sedili posteriori, o sul cassone di qualche van, ecco tutto. Mi chiedevano chi fossi, dove andassi, io rispondevo sempre la stessa cosa. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan.
    Loro continuavano a volte con: "Che ti porta a Ketchikan?" Oppure: "Non la conosco". Feci tremendamente fatica a trovare passaggi, perché mi sentivo male a ricordare le città che avevamo attraversato insieme a Scipio così tanti anni prima. Quei nomi erano dei fantasmi per me.
    Non so quanto tempo impiegai a fare tutto quel giro...probabilmente mesi e mesi. Avevo sempre gli stessi vestiti, non mi volevo vedere in faccia, solamente, andavo verso quella meta, per sopravvivere.
    Entrai in Alaska, alla fine. Faceva tremendamente freddo, ma non lo sentivo, non così tanto come avrei dovuto. Ero solo agitato, confuso, non riuscivo neanche a parlare...gli stimoli erano troppi.
    Avevo dormito nell'ultima macchina di un tipo, che mi aveva dato un passaggio. Ketchikan. Non sapevo quante volte l'avevo già detto, ma lo avevo ripetuto di nuovo, per poi addormentarmi sul sedile posteriore. Il viaggio doveva essere durato poco, perché mi aveva fatto scendere ad un certo punto, e non ero in mezzo ad una città, ma ad una fottuta foresta, e non sapevo neanche che ore fossero, perché il sole non si vedeva e nevicava.
    Con una sola borsa di pelle, trovata tra l'immondizia a New York, iniziai a camminare a destra della strada deserta. Mi restavano ancora un paio di barrette lì dentro, non sapevo di che farmene. Forse le avrei mangiate la mattina dopo, perché sapevo di essere in Alaska, e allora Ketchikan doveva essere vicina. Dovevo solo andare, andare e non pensare, andare, andare...
    Passò diverso tempo. Alla fine, vidi luci di fanali dietro le mie spalle, e una macchina. Stancamente, alzai quello che avevo imparato fosse un segno inconfondibile per un passaggio: non sapevo esistesse finché un tizio non mi aveva avvisato.
    "Sei matto per caso? In autostrada, agitarsi così a quest'ora di notte...devi alzare il pollice verso l'alto, così! O finirai secco sotto qualche ruota d'un camion!".


    Edited by » avalanche - 8/8/2022, 17:11
     
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    uce e oscurità e il loro giochi, i loro cambi spaventosi si trovavano alle sue spalle, le rivoluzioni di una magnitudo che aveva partorito un nuovo destino, composto di nuove immagini, tutto era passato. Adesso rimaneva lei, nel corridoio tra la coda delle scosse precedenti e il principio delle successive. Era un corridoio molto lungo in cui si respirava la fretta di guadagnare una prospettiva, ma il segreto che condividevano il tempo e la coscienza restava chiuso, la magia per accelerarne il meccanismo un desiderio di chi indugiava in pozzi di rimpianto troppo grandi, dai bordi che volevano inghiottire i confini del corpo.
    C'era un lamento. C'era da tanto tempo. Anche lei voleva aiuto, un sostegno. E a malapena lo concepiva possibile, era come un elemento del mondo nuovo, del tutto nuovo che fosse appena stato scoperto. Sapeva come aveva fatto a non accorgersene. Semplicemente bastava che volesse qualcosa con tutta se stessa, in genere si trattava di immagini di bambina, ragazza e donna da indossare, e dimenticava le altre vesti altrettanto sue ma meno splendenti, meno adatte a un'esposizione in cui gli altri avrebbero voluto riporre i loro significati. Era stata per tutta la vita una collezionista di significati altrui, aveva incarnato sentimenti ammirevoli per piantarsi come faro nel maggior numero di esistenze. Una predatrice a modo suo, e perfettamente mimetizzata, inaspettata persino per sé.
    Un'accelerazione però c'era stata. Le prove del caos, diverse. La mente non l'aveva mai detto che non ce l'avrebbe fatta, ma ogni istante era stato insopportabile. Si usciva da quelle prove con un accumulo di frammentazione e anche una quantità adatta di collante per metterla insieme. Se ne usciva, insomma, con uno sguardo vecchio che sapeva vedere le vulnerabilità delle fasi passate, posandosi sulle paure che correvano sulla nuca come grigiore di nuvole. Ora lo spirito era abbastanza vecchio da passare in rassegna quelle vulnerabilità private da museo, quello sguardo l'unico risarcimento che avrebbero ottenuto.
    Le sue persone di riferimento poteva vederle solo con gli occhi del ricordo, salvo quando le sporadiche lettere le resuscitavano nel presente, così le sue giornate si erano staccate dalle loro giornate, i loro ritmi erano usciti dal suo orizzonte come anche il suo automatismo di coordinarsi con essi. Persa una coordinazione che aveva costituito una musica intensa, la sua ricchezza che dava l'impressione di saper solo crescere. Seppure non si fosse mai ingannata.
    La nostalgia non aveva mai avuto tanta eloquenza. Voleva farsi sentire e le andava bene, perché un patto si era creato: le sue manifestazioni le chiedevano appena di soffermarsi per qualche minuto, dopodiché aveva via libera per proseguire i suoi compiti. In fondo era il suo solito modo. Tutto ciò che era accaduto aveva modificato ogni cosa, ma non questo.
    Era a Ketchikan per una reliquia, il suo custode voleva mostrargliela e parlargliene. Era stato amico di suo padre - il suo spirito viveva in lei in parte e lui a quella parte non voleva rinunciare. Aggiornamenti entusiastici, i poteri sacri che attiravano loro che si erano votati a quella tradizione, un altro pezzo da aggiungere a una storia iniziata per lei nell'infanzia che l'aveva legata a innumerevoli infanzie sparse nei secoli e nei chilometri, la bellezza di essere custodi di qualcosa in espensione e il conforto di ritrovare un linguaggio condiviso. Ma anche, evidenti, gli echi di una catena spezzata, dove lei avevo visto soltanto, ostinatamente il lato amabile dell'inanellamento.
    Se la terra promessa doveva arrivare e lei era uno dei profeti, le cose andavano male siccome non solo non le interessava raggiungere la cima dell'eventuale Sinai, si era del tutto fermata nella scalata.
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    Edited by Mythesis - 27/8/2022, 18:34
     
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    Tra le narici avevo l'aria che mi aveva fatto svegliare la prima volta che ricordavo. Era tremendamente diversa da quella che avevo respirato fino a pochi giorni prima, era tesa, somigliava ad un filo spinato stretto tra le mani, ma non faceva del male, solo...era intricato. Inspirando ed espirando quei nodi si indurivano sempre di più, ed era tutto bianco, tutto bianco come il Wild che Scipio mi aveva letto e riletto.
    Era però allo stesso tempo molto diverso da quella storia che ormai ricordavo a memoria. Non avevo alcuna slitta con me, non stavo scappando in fretta da qualcosa, non avevo un peso dietro le spalle da trascinare, né l'urgenza di scappare. Non provavo il brivido del Wild, almeno, non in quel momento...con me c'era solo un vecchio lupo stanco.
    Più la macchina si avvicinava, più avevo l'impressione che la voce di Scipio mi si arrampicasse in testa e dovesse per forza ripetermi la fine di quel tale Jack London.
    « Non si sa se sia morto per abuso di antidolorifici o si sia tolto la vita...ma non fa differenza. Certe persone viaggiano così tanto da perdersi in ogni caso »
    Tranne noi
    , gli avevo risposto, quella volta, dopo essermi intristito. Ero così convinto di avere ragione...molti artisti, musicisti, scrittori che avevamo imparato ad amare insieme avevano avuto vite terribili, ma io ero certo che le storie orribili noi le avessimo già passate, e che avessimo preso a piene mani da quell'orrore tutto l'amore che potevamo essere capaci di conservare per sopravvivere insieme, come una preda appena cacciata al centro di una foresta. Invece dopo l'abbandono, pure le brutte storie passate non erano altro che delle porte nella mia memoria, che attraversavo senza sosta per poter anche solamente afferrare quello che di buono c'era stato.
    Alla fine, Scipio era diventato un vampiro, Andrew un mago nero e io avevo perso una famiglia che non ricordavo...ma non era stata una maledizione. Non lo era stata affatto, finché eravamo stati uniti.

    « Sembra che Andrew sia stato come un padre per te »
    Sono davanti a quella libreria che ormai ho iniziato a conoscere a memoria. Le do le spalle, non importa più. Ormai da troppo tempo andiamo avanti con questa roba della terapia, così continuo a leggere i titoli dei dorsi colorati anche se non ne ho bisogno.
    « Era un prete. E' quello che fanno, solitamente »
    « Essere padri? Qualcuno potrebbe prenderla come un'offesa verso i dogmi religiosi, perché credi questo? »
    Rido. Dogmi religiosi. Se solo sapesse quanti dogmi ho imparato, più veri, più reali di quelli.
    « Perché si prendono cura delle cose, anche quando non le possiedono. Gli Dei non possono farlo, non qui, non ora...hanno bisogno di alcuni uomini per questo »
    Vienna si prende una pausa, appunta le sue solite cose su quel taccuino che non posso mai leggere, anche perché non so farlo bene. Ne ha cambiati tre da quando abbiamo iniziato.
    « Questo lo ha detto Andrew? »
    « No...l'ho imparato da un amico molto più vecchio » mormoro abbassando lo sguardo su un libro dei tanti. Thousand Moons, Sebastian Barry.
    « Vuoi parlarne? »
    Scrollo le spalle. L'ho già fatto, ma se con Andrew e Scipio mi sono lasciato sfuggire nomi e storie, con lui non posso proprio farlo. Ho un accordo, ancora aperto. Sono scappato, ma so che prima o poi dovrò farci i conti. Uno dei miei tanti problemi.
    « Non c'è molto da dire, è una persona che è stata dentro questo genere di cose. Gli uomini possono toccare, soffrire, amare, e a volte vengono chiamati per proteggere o distruggere. Fa tutto parte del patto »

    Mi si stava staccando la suola da una scarpa. Avevo i piedi un po' rovinati, niente di speciale, e intorno a me c'erano solo abeti e quella strada ancora salva dalla neve, per poco. Le luci si avvicinarono rombando, ed ebbi la stessa sensazione della carta abrasiva sulle guance. Arricciai il naso contrariato, ma non mi mossi, aspettavo quella macchina, se non si fosse fermata mi sarei incazzato. Odiavo quando lo facevano. Odiavo quando mi davano occhiate di soggezione che potevo scorgere, perché ho sempre avuto degli ottimi riflessi e cazzo, mi innervosivo.
    Mi trovavo più a mio agio per quel motivo, quando riuscivo a beccare macchine sporche o rovinate. Non mi sentivo fuori posto, ecco. Quell'ultima auto, però, era lucida, anche se i fiocchi di neve ci cadevano sopra sembrava non ne venisse toccata. Quelli invece venivano bruciati dalle luci prima di atterrare tra le gomme, piccoli animali investiti e dilatati sull'asfalto.
    Si fermò, c'era una donna. Appena abbassò il finestrino, l'unica cosa che riuscii a pensare fu quella solita cantilena.
    Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan. Romeo. Ketchikan.
    « Ketchikan » borbottai, e senza neanche aspettare aprii dal lato del passeggero, e sprofondai sul sedile.
    All'interno non c'era altro che un solo e unico odore, troppo dolce, stucchevole, un miele appiccicoso che amplificava quello del profumo che doveva aver deciso di mettersi addosso. Quel trionfo sdolcinato era ovunque: sui sedili in pelle, sul cruscotto, sulle mani e il volante, tra i suoi capelli biondi. Pensai subito che quella donna sarebbe piaciuta a Scipio. Se l'avesse incontrata in un bar l'avrebbe invitata a bere con lui, poi l'avrebbe portata tra i vicoli vicino al porto di New York e l'avrebbe bloccata al muro, ad un certo punto. Lei non avrebbe potuto farci nulla, si sarebbe accasciata a terra e Scipio le avrebbe staccato parte del collo, nutrendosi di tutto il sangue che aveva. Si sarebbe alzato, leggero e sazio, avrebbe cercato di pulirsi poco e male, e avrebbe cercato Romeo.
    Non la guardai, entrai e basta, quasi trattenendo il respiro. Non mi piacevano più i colori che le persone potevano avere dentro di loro. Mi dava fastidio scoprirli, erano solo delle presenze che mi si attaccavano addosso, inutilmente, pregando di farci qualcosa. Non sapevo più quale potesse essere il loro scopo, se non quello di dilaniarmi le narici.
    Chiusi la portiera, bofonchiai un grazie e poggiai la spalla e la testa contro il finestrino, rannicchiando la schiena verso quel punto, come fosse una via di fuga. Gli occhi chiusi a metà continuarono a guardare davanti a me, il cruscotto e la neve che cadeva, quella neve ormai inesistente oltre l'Alaska, a cui mi aggrappavo per tenere mente perché fossi lì, proprio lì, e non altrove.


    Edited by » avalanche - 15/8/2022, 15:40
     
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    i ero abituata a cercarlo, quel tipo di disagio. Ero stata una ragazza "troppo sulle sue". Mio padre, intenditore della mente umana, non me lo aveva permesso fino in fondo. La durezza andava bene, nella sua concezione delle cose, quando impressa nel perseguimento della tolleranza. Duri di comprendonio era ancora accettabile, ma duri nell'intolleranza no. Aveva tirato bene i suoi fili, così la mia visione si era stabilizzata sui binari di quella rete a cui lui teneva tanto, affilata di suoi principi. Avvertii il profilo di quei fili mentre decidevo di accostare e prendere con me quello sconosciuto.
    Le trappole del pensiero umano, quante ne avevo individuate nella mia vita e superate? La diffidenza a offrire gentilezza a un estraneo era naturale, un istinto primario. Non lo era per me, per noi, la mia famiglia, perché c'era stata trasmessa una devozione diversa, non data alla nostra preservazione, ma a un fine superiore, e chi doveva rappresentare ogni minuto di ogni giorno una visione più ampia, sorreggerla anche per tutti gli altri, non poteva cedere all'eredità selvatica della carne. Pensavo che se anche fossi cresciuta lontano dalla realtà dei Templari, avrei cercato un risultato simile per me in ogni caso. Un'inclinazione innata che reclamavo. Ognuno di noi aveva una serie di inclinazioni innate che amava o odiava, anche quel giovane uomo, e il pensiero che lui aveva sviluppato nei confronti di queste, e quanto le sentisse rispettivamente presenti nel suo corpo in quel dato momento, veniva prima di quel che vedevo, odoravo e ascoltavo di lui, e lo addensava in quello che mostrava al mondo, e questa verità la respiravo in ogni mia cellula.
    Quello che i miei occhi registravano come trascuratezza, forse non lo era per lui. O se lo era, lui aveva preso quel concetto e ne aveva fatto qualcosa di personale, una storia snodata di fotogrammi ognuno dei quali mi era sconosciuto, una storia che era un ventaglio progressivo per lui e solo una stecca muta per me. Cautela.
    Tenevo le mani sul volante, mi voltai un po', lo guardai meglio, ma senza esagerare. La sua estraneità mi scivolò sul corpo come un acuito senso dei vestiti addosso, il mio tailleur blu attraversato da linee dorate in opposizione ai suoi abiti vissuti suggerivano una certa incomunicabilità. Chiaramente voleva una macchina ma non voleva le mie attenzioni. Una macchina con intelligenza artificiale sarebbe stata perfetta, quello era il messaggio e non mi dispiacque, mi parve di rivedere uno dei miei fratelli più piccoli addossato all'interno dell'auto di Cassian come una particella intrappolata, arrabbiata. O di rivedere me stessa prima di loro.
    Ketchikan era piccola, non credevo che quel passaggio mi avrebbe richiesto deviazioni, comunque non sarebbe stato un problema siccome la finestra temporale dell'appuntamento col collega di mio padre, non era stretta. Eravamo in moto.
    Romeo, un nome inconsueto che mi sarebbe piaciuto pronunciare, mi accorsi di non aver ancora parlato.
    "Romeo, io sono Nidya" lo sguardo avanti. Conoscevo il mio tono, avevo conosciuto innumerevoli persone, sia perché mi aveva sempre dato appagamento sapermi, sulla bocca degli altri, disponibile, sia per intenti educativi. Quell'impronta di pazienza educativa era ormai una premessa alla mia voce, quando avevo conosciuto Eleonora già la possedevo e l'avevo usata per piacerle dal primo istante. Quante sciocchezze, che tutte insieme formavano importanza.
    Non gli avrei detto di fare come se fosse a casa sua solo per metterlo a suo agio, ma dissi, come sostitutivo, sebbene non mi aspettassi alcun seguito alla proposta: "Se vuoi ascoltare della musica, fa' pure".
    Di inconsueto aveva anche la commistura di rilassatezza e aggressività. Non era diffidente nei miei confronti nel modo più assoluto, era qualcos'altro. Sembrava così stanco e snervato; questo mi rilassò, come se il suo essere in quello stato avesse fatto un cenno amichevole alle mie sensazioni affini, perché venissero fuori in tranquillità.
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    Edited by Mythesis - 27/8/2022, 21:22
     
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    “And i know it's over - still i cling, i don't know where else i can go, over and over and over”
    La macchina ormai era partita. Ogni volta mi faceva un effetto strano: il paesaggio che scorreva accanto al finestrino chiuso, sempre diverso, e pure il rombare del motore, le interiora e la pelle di ogni veicolo non si assomigliavano mai l'uno all'altro. Ogni passaggio era un viaggio a sé, e nessuno di loro sembrava collegato all'altro. Specialmente la gente che mi prendeva con sé.
    L'Alpha di Scipio invece, della nostra fuga aveva fatto un percorso unico. C'era sempre stata, e Scipio col cazzo che aveva mai pensato di cambiarla. Avevo tentato di ripararla una volta, ma non ne capivo un accidente. Mi ero infilato sotto di lei, tra le quattro ruote, mentre Scipio mi aveva guardato tutto il tempo a braccia conserte, in piedi. Per tutto il tempo avevo visto le sue scarpe accanto alle ruote, le sue lucidissime scarpe marroni, e la sua voce delicata che continuava a borbottare come quella di un vecchio: "Che stai facendo lì sotto?", "Non credo sia il verso giusto", "Cos'era quel rumore?" Nonostante non avessi fatto alcun rumore. Lui sentiva tutto, pure se alla radio passava un brano violento, con mille strumenti in massa.
    Lui sentiva tutto.

    « Ti senti incluso in questo compito? »
    Mi giro, aggrotto la fronte. Che razza di domanda è?
    Vienna si schiarisce la voce, punta la mano chiusa davanti alla bocca. Ha un nonsoché di diverso oggi, ma sono troppo stupido, probabilmente, per capire cosa cazzo sia. Ah, le donne...
    « Credi di essere incluso in questa cerchia di uomini, protettori e distruttori? »
    Stringo gli occhi a fessura, schiudo le labbra in un ghigno da cui escono appena le punte dei denti.
    « Quando è possibile » dico, mantenendomi sul vago. Non sono sempre un uomo.
    « Quando è possibile, Romeo? »
    Mi rigira la frase, cambiando solamente l'intonazione. Non l'ha mai fatto, resto un attimo sorpreso, mi piace quel gioco. La mia smorfia si fa sorriso aperto.

    L'ultima donna tra quei viaggi, mi chiese di scegliere della musica, se avessi voluto. Domanda strana, Vienna, molto strana. Solitamente chi guidava aveva l'ultima decisione su tutto, invece pure lei era stanca, si vedeva. Nonostante non volessi avere nulla a che fare con lei, i miei peli avvertivano il suo stremo. La macchina andava avanti per lei, non il contrario...così, pure la scelta di qualche canzone doveva essere difficile. Forse. Ah, non ne avevo idea...ero stato così lontano dagli uomini, fino a quei momenti, che la loro presenza mi metteva addosso ancora più solitudine.
    Soffiai uno sbuffo, rannicchiato, abbassai la testa per guardarmi i piedi. Tenevo le scarpe sul sedile, le ginocchia rannicchiate proprio davanti al petto, e il corpo era inclinato, addosso alla portiera, addosso al finestrino.
    « Non...non ascolto musica »
    Non più. Mi corressi.
    « Non più »
    Poco prima l'avevo sentita pronunciare il mio nome in modo strano, come se dovesse accertarsene. Nydia. Mi sapeva di qualche dolce, qualche frutto maturo, fin troppo, uno di quelli che doveva essere consumato e mangiato subito, o sarebbe andato a male, e sarebbe stato un peccato. Un peccato. Perché quelle impressioni ancora mi erano così familiari? Perché continuavo ad averle addosso? Cazzo, basta.
    Pure per quel motivo non avevo più ascoltato musica. Non l'avevo neanche più suonata...non aveva senso. Non volevo raggiungere più emozioni così contrastanti, non volevo esserne il portatore, essere il mezzo, in mezzo. C'era quella nostalgia che come un pezzo di cotone continuava a entrarmi in gola, ed era un senso di soffocamento che io stesso mi provocavo...ma andava bene così, per il momento.
    Quel momento sarebbe durato anni, fino ad ora, Vienna. C'è una differenza tra sentire e ascoltare, credo. Sentire, per mio conto, è quando un'impressione ti attraversa, così, per caso. Vai nella strada principale di una città, altre persone attorno a te fanno le loro stronzate, tu cammini, ma non ti fermi. Guardi, ma non ti fermi, è tutto in movimento, come una cometa nel cielo, tra le stelle, oltre la Terra, nello spazio.
    Ascoltare è molto diverso. Ti devi fermare, almeno un momento per farlo...sai, per impegnarti. Poi, sinceramente, io sono ancora più lento, mi serve altro tempo del cazzo per capire cosa sto ascoltando, ma lo faccio. Lo facevo. Mi fermavo, e Scipio, che aveva tutto il tempo del mondo, si fermava insieme a me. Ecco perché non ascolto più la musica...è difficile fermarsi. Cazzo, lo è, se non sai più cosa aspettarti. Potrei essere accaldato da un suono, oppure trovarmi con i brividi. Ancora, i colori potrebbero prendere il sopravvento e colare ovunque io vada. Non so se sono pronto per questo, Vienna. Pure adesso, dopo tutto questo tempo, forse proprio perché di tempo ne è passato troppo, e so solo muovermi, senza pretendere troppo. E' una cosa che mi riesce naturale, infondo...e ad aspettare, spesso, non ci si cava nulla di buono. Per questo ero partito, sai...per ammazzare quell'attesa.
    Girai solo gli occhi verso di lei. Aveva un modo strano di stare seduta a guidare...pure quello cambiava da persona a persona. Strana, la gente. Aveva un naso appuntito, e andava all'insù, come se fosse premuto da un dito invisibile contro la faccia. I capelli erano ordinati e scombinati allo stesso tempo, arruffati apposta, quel tanto che bastava.
    « N-non so, conosci Ketchikan? » borbottai, dondolai la testa da un lato, quasi balbettando. Odiavo quando succedeva. Parlavo poco, e con troppa gente.
    « Ecco...puoi lasciarmi più o meno prima della strada principale. A destra, dove c'è il cimitero, il vecchio cimitero, già » le dissi, per poi tornare a guardare oltre il finestrino, dall'altro lato. A volte sentivo le ossa tirarsi, quando stavo seduto in un ambiente caldo come quella macchina. Mi rendevo conto solo in quei momenti di essere stanco.
     
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    l cielo non era aperto su di lui. Il suo sguardo correva su dei binari e alla fine di questi, un cimitero. Procedeva, eppure era raggomitolato. Un modo difficile di procedere. Chissà da quanto tempo andava avanti.
    L'essere umano era veloce a minimizzare il proprio percorso, un po' per il troppo dolore, un po' per preservare quel dolore dal culto di una resistenza che era gloriosa solo quando i conquistatori rinunciavano a esprimersi. Gli esseri umani non sentivano nessuna gloria nei versi della sofferenza, come se dopotutto la gloria non fosse mai stata cosa loro, bensì un'essenza che avevano trasportato e che alla fine, per brillare, aveva bisogno del completo sacrificio delle loro espressioni, fino a quelle più sottili. Nessun dubbio che lo sconosciuto si sentisse inglorioso. Il palpito della sua storia non aveva testimonianza. Forse stava andando verso un luogo dove s'era sentito osservato, dove la sua traccia era rinata.
    Un giovane uomo che chiedeva l'autostop e con meta ultima un cimitero. Suscitava l'istinto di mobilitare risorse per aiutarlo, di snocciolare soluzioni anche a costo di soffocarlo. Lui aveva avuto qualcuno che ci aveva provato ma era lì comunque, oppure non l'aveva avuto? Lo avrebbe apprezzato o si sarebbe ribellato, sarebbe fuggito? Era senza nulla, ma il suo bagaglio soffocante era ben visibile.
    Avere il viso di qualcuno dedito ad ascoltarci, il suo viso come unica dimensione, i suoi occhi e la sua bocca sospesi per noi. Poteva andar bene chiunque, perché quel tipo di attenzione creava un'unica divinità nel caos della molteplicità umana. Ma quella divinità si associava a un volto o più volti precisi, e l'accesso a questa cruda verità si dimenticava, veniva chiuso spesso in modo definitivo, perché il bisogno d'affetto, carne riconoscibile e salda, era più feroce, in tutti noi, del bisogno della divinità, principio amorfo e intangibile.
    Mi lasciai guardare da lui senza ricambiare, istanti di me che gli cedevo perché mi descrivesse con le sue parole, potendo tenere queste ultime lontanissime da me, creavo, quindi, più spazio di respiro nella macchina. Quando alla fine mi volsi, sentivo un velo forse commosso sugli occhi.
    Quel 'Non più' era così giovane, fresco nella sua cupezza. Le tante facce della felicità. Una felicità voltata dall'altra parte, ma i veli che la proteggevano non cambiavano le sue fattezze. Anche la musica era occupata da un affetto vecchio e dispotico.
    Perché il cimitero, Romeo? Per sentirti tra le spoglie, spoglia anche tu, o per sotterrare il passato? Se quello che cercava fosse stato un oggetto, sarebbe stato l'altro filo che insieme al suo, aveva intrecciato una trama dialogante con tutte le cose. La seperazione aveva un impatto su larga scala sulla nostra capacità di dialogare. Si andava nei cimiteri per avere l'impressione di sfiorare con mano quel filo mancante, così le parole fluivano sole, ma sostenute dalle tombe. Qualcosa che non si poteva trovare altrove era in ascolto nei cimiteri.
    Stava andando a fare qualcosa di coraggioso, questo lo intuii. Io non riuscivo propriamente a pensare alla parte scomparsa della mia famiglia, pur essendomi costretta a non distogliere mai completamente gli occhi da quegli eventi e quelle perdite, forzandomi tragicamente la mano a volte. Si parlava della paura verso il futuro sconfinato, ma era uno sbaglio comune. Il futuro era l'apertura di una cruna. Il passato era pesante, pieno di momenti, alcuni così vasti, quelli che ci legavamo addosso come le più belle decorazioni. Il passato era vasto e si temeva del futuro che non potesse eguagliare la sua vastità. E ancora peggio, che il suo vuoto potesse dissipare quelle decorazioni.
    "Sì, ho capito. Sono stata a Ketchikan diverse volte, per lavoro."
    Un tempo avrei continuato a parlare quasi affacciando leggerezza, mentre mi fermai lì, perché a ostacolare il passaggio alle mie parole c'era il ricordo di mia sorella, con la quale avevo sbagliato in molti modi, e quello ne era un esempio. Ovviamente non era la verità, ma sentivo che il giudizio e i suoi modi mi erano stati insegnati dai miei fratelli Dacian e Vesper e che senza di loro quella mia parte non sarebbe esistita. Se ci avessi riflettuto, ero certa che avrei trovato in ogni membro della mia famiglia una sorta di dio creatore di una parte di mosaico che mi componeva.
    "Da ragazza suonavo il violoncello, adesso non più."
    Il violoncello era una cosa mia, o almeno lo avevo pensato per molto tempo, quando era ancora vero che suonare era la via per un mondo indipendente.
    Dopo vidi che il violoncello era anche l'ammirazione di Eleonora, l'indifferenza di Julian verso quel mio impegno, Dacian che veniva inasprito dalle note che calmavano me, e che nella musica trovava uno strano pretesto per sottolineare le mie falle, come se la musica fosse un gioco che gli offrivo; il riserbo interessato di Cassian che mi girava intorno, con una buona parola sulle labbra che desiderava molto dirmi, Vesper il cui odio per me aveva inglobato lo strumento. Mio padre e la sua approvazione in stanze lontane dalla vista, mia madre che era l'inizio, l'accompagnamento e la fine di ogni brano, dove mi facevo abbastanza viva per poter sentire la sua rievocazione.
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    « Beh...ecco, mettiamola così » gesticolo con una mano, torno verso il divanetto e mi butto lì sopra, di peso. Molleggia tutto, pure le mie gambe, aperte, e le mani che si poggiano sulle ginocchia.
    « Delle volte non riesco a capirci un cazzo di cosa va o non va toccato »
    « Hai paura di snaturare il tuo compito? »
    Rido.
    « Ma quale compito » dico, leggero. Mica è un compito per casa, o roba simile, che se non lo fai vieni punito. E' il cazzo di problema della gente: credono sempre che tutto stia lì a guardarli e si preoccupi di come si facciano le cose.
    « E' che...come dire, ne abbiamo già parlato che in alcuni momenti non...non sono in me »
    Lei annuisce. Oggi è più paziente del solito.
    « Se non sono in me mica ci do peso a queste cose » la interrompo subito, so dove sta andando a parare. Alzo una mano, la agito: « No, no, non mi fa paura, nulla del genere, succede e basta. Sai, è una parte di me, è importante, sa prendere decisioni per quanto siano istintive, non sta ferma in un punto a non fare niente, quello no. Per me è ok... » la guardo abbassando la mano: « ...è ok non capire qualcosa, o non riuscire ancora a dormire la notte dopo aver speso un cazzo di anno in terapia. Mi sento più sicuro di queste cose, da quando sono qui »
    « Sono felice di sentirtelo dire, Romeo »
    « Sì...cosa faccio o non faccio per essere incluso, non ha più così tanta importanza per me »
    Ricomincia a scrivere. C'è una pausa che mi mura la testa.
    « Questo però non l'hai capito solamente dai nostri incontri »
    Sto in silenzio. La penna ondeggia, la seguo e mi sembra che non stia scrivendo niente, che invece ne esca fuori una canzone, lontana, come se venisse dalla radio di una macchina in particolare.
    Alfa Romeo.

    « M-mh » mugugnai roco in risposta. Non che me ne fregasse più di tanto ormai, ma pensai che chi andava a Ketchikan per lavoro doveva nascondere qualcosa. In realtà, l'avrei potuto dire tranquillamente anche per chi andava a Ketchikan e basta. Quel paese era una cazzo di carta insetticida attaccata dietro allo sportello di una mensola. Non era grosso come Philadelphia o New York, ma in qualche modo attirava a sé la gente che gli serviva e non la faceva più spostare...e tutte quelle persone gravitavano intorno a quel pianeta disperso, come fosse semplice tornarci ancora.
    Pensandoci adesso, probabilmente non era così. Ero io, sai, che mi facevo tutti quei gran pensieri, perché ero fuori di testa in quel periodo. Sinceramente non so neanche che cazzo stessi andando a fare pure io lì, e ancora adesso non so veramente che risposta volessi, davanti ai miei occhi. Volevo davvero vedere Scipio? Volevo davvero sperare di inseguire con gli occhi ancora una volta la lunghezza della sua schiena, le spalle un po' ricurve in avanti, e quei capelli corti e pettinati all'indietro come terra bagnata?
    Forse non lo volevo davvero...non lo so, stavo andando a trovare la sua tomba, per controllare se c'era o meno. Chi è che controlla un morto che non può morire, nella speranza che sia ancora vivo?
    "Da ragazza suonavo il violoncello, adesso non più."
    La voce della donna s'insinuò nei suoi pensieri come se si fosse premuto un interruttore, e subito quel colore si mischiò alle consonanti. Aveva un modo di parlare strano, pensai, uno di quelli da cui non potresti mai indovinarne l'accento. Lo aveva cancellato, o forse non gliel'avevano mai insegnato, così il colore che sbordava era più un vapore che una sensazione liquida.
    Ancora, quei maledetti colori. Che cazzo di fastidio.
    Di riflesso mi strinsi ancora di più nelle spalle, dall'altro lato rispetto a lei. Quelle sensazioni adesso le vivevo come fossi io, il vampiro. Come se avessi bisogno di buio, per far riposare gli occhi, e non volessi che quegli odori, quei suoni mi entrassero in petto e scavassero in bisogni già sperimentati, quando ero...quando ero vivo.
    Provai a parlare di nuovo, ma dovetti deglutire per evitare che la mia voce roca fosse pure impastata di saliva: « Ah. Non l'ho mai sentito »
    Una volta avrei iniziato a chiederle di descrivermi il suono che faceva e ad insistere per provarne uno. Com'erano cambiate le cose...alla congrega voodoo di Philadelphia avevamo suonato molto, io e Scipio. Mi venne in mente quando facevo capolino da una finestra, perché lo sentivo premere i primi tasti sul piano della stanza in cui a volte suonava della gente, di sera, per fare un po' di festa - a tutti loro piaceva ballare e mangiare, era una tradizione. In quei momenti sapevo che si sarebbe messo a provare qualcosa, di lì a poco...sapevo che si stava concentrando, e che si era accorto che io ero lì. Lui mi vedeva sempre, e da lì iniziava a suonare.
    « Anche io ho smesso. Ho strimpellato il violino per qualche tempo. Niente di che, suonava anche di merda, quel coso » mugugnai stanco.


    Edited by » avalanche - 5/10/2022, 00:36
     
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